Durante la primavera del 2025, in un momento in cui il governo tunisino aveva nuovamente intensificato la violenza contro le persone nere in movimento, siamo state ripetutamente allertate riguardo le sistematiche espulsioni verso il deserto, con conseguenti morti o sparizioni.
Espulsioni in seguito a naufragi

Journey according to the testimony given. Photo: Alarm Phone
L’ultimo pomeriggio del 2024, siamo state informate di una barca in pericolo con a bordo circa 60 uomini. Erano partiti il 31 dicembre da Zuwara alla volta di Lampedusa ma, poco dopo la partenza, avevano avuto un guasto al motore. Mohammad, alleato di Alarm Phone e membro di una rete siriana che sostiene le persone in pericolo in mare, ci aveva riportato quanto accaduto:
“All’inizio di questo nuovo anno, avevamo già assistito a troppe tragedie nel Mar Mediterraneo, causate dalle politiche di chiusura delle frontiere, del razzismo dilagante e dell’incapacità delle autorità di adempiere al loro dovere. Oggi ricordo un incidente avvenuto il 31 dicembre, che ha causato la morte di 16 migranti. Come molti altri giorni, avevo ricevuto una chiamata da persone in pericolo in mare. Erano le 8:00 del mattino, il mio telefono aveva squillato. La persona aveva detto “Pronto” e io avevo risposto “Pronto, cosa posso fare per lei?”. Aveva iniziato a spiegarmi la situazione, ma la chiamata era stata improvvisamente interrotta a causa di interferenze.
Prima che la linea cadesse, mi aveva detto che uno dei motori della loro barca si era guastato, e che l’altro funzionava ancora. Avevo provato a richiamare più volte, senza successo. In stretta collaborazione con Alarm Phone, avevamo lavorato instancabilmente per ore cercando di localizzarli. Nel frattempo, avevano iniziato ad arrivare chiamate da parte delle loro famiglie, con domande strazianti: “È successo qualcosa di grave? Sono arrivati sani e salvi?” Non avevo risposte.
Una madre mi aveva detto: “Mi dica, mio figlio è annegato?” La sua voce trasmetteva una certezza, come se sapesse già la verità senza che nessuno gliela avesse detta. Sì, la barca, con a bordo circa 60 persone, era affondata.
Più tardi, avevo ricevuto una chiamata da un pescatore che mi aveva detto di aver soccorso alcuni sopravvissuti e di averli portati in Tunisia. Tuttavia, le autorità locali li avevano trattati come sempre accade, e li avevano deportati nel deserto al confine con l’Algeria. Le persone avevano camminato per 10 ore nel deserto senza cibo né acqua prima di trovare qualcuno che le aiutasse.
In seguito, mi avevano richiamato per informarmi di aver finalmente raggiunto Algeri dopo un viaggio estenuante. Ma la tragedia non era finita qui. Mi avevano spiegato che il gruppo originario si era diviso durante il calvario e che alcune persone erano ancora dispersie nel deserto. Avevano anche perso un amico in mare, di cui non si conoscevano né il nome completo né i contatti della famiglia.
Avevamo cercato di sollecitare le autorità, affinché intervenissero, ma nessuno aveva fatto nulla. Avevano lasciato quelle persone morire in mare o nel deserto.
Spero che la lotta continui e che cresca il numero di coloro che lottano per la giustizia e l’umanità in mare. Le uccisioni alle frontiere devono finire! E tutte le persone hanno bisogno di vie di comunicazione libere e sicure per viaggiare”.
Screenshots of a video showing the difficult rescue from the capsized boat by fisherman. Video provided to AP by a relative of people on the move.
Nonostante la nostra segnalazione alle autorità europee e tunisine, il soccorso dei naufraghi era stato effettuato da pescatori tunisini che, per fortuna, si trovavano nella zona. Tragicamente, per 16 persone il soccorso era giunto troppo tardi.
Una volta giunteo a terra, le autorità tunisine avevano deciso di deportare i sopravvissuti nel deserto, esponendoli nuovamente alla morte.
Uno dei gruppi più piccoli era stato spinto nella regione desertica al confine con l’Algeria. Grazie alla conoscenza dell’arabo, alla loro giovane età e buona salute, erano riusciti a raggiungere Algeri. Dopo la violenza subita alle frontiere esterne dell’Unione Europea, decisero di tornare in Siria.
Un altro sopravvissuto è scomparso dopo il soccorso verso Sfax. Dopo settimane di ricerche da parte del fratello, ha dato un segno di vita da una prigione di Tebesa, sul lato algerino del confine con la Tunisia. Era finito lì dopo essere stato portato in autobus a Kasserine, poi a Thala e successivamente spinto oltre il confine. Nella prigione era detenuto insieme ad altre 35 persone, di cui almeno due minorenni. Altri hanno riferito di essere stati lì per cinque o sei mesi.
Alla fine di aprile è stato espulso dall’Algeria verso il Pakistan, in aereo, insieme ad altre persone provenienti dal Pakistan.
Le espulsioni multiple che hanno causato la morte del piccolo Elian Michel

Journey according to the testimony given. Photo: Alarm Phone
Nel mese di febbraio, Alarm Phone è stata contattata da una madre che aveva perso il suo bimbo di soli tre mesi. Era accaduto dopo diverse espulsioni verso le zone di confine, seguite all’intercettazione in mare sua e del marito da parte della guardia costiera tunisina:
“Mi chiamo S., sono camerunese. Ho lasciato il mio paese due anni fa. All’epoca avevo una relazione con quello che ora è mio marito, ma essendo studenti non avevamo molti soldi, quindi i miei genitori volevano costringermi a sposarmi. È stato per evitare questo matrimonio forzato che mi sono vista costretta a fuggire dal mio Paese.
Io e mio marito siamo arrivati in Tunisia alla fine del 2023 con l’idea di stabilirci lì e iniziare una nuova vita. Sapevamo che la situazione nel Paese era difficile, ma non immaginavamo che le condizioni di vita fossero così dure. Abbiamo vissuto a Tunisi per due mesi, condividendo un appartamento con altre persone e lavorando per pagare l’affitto. Eppure, la situazione è peggiorata molto rapidamente: il razzismo era ovunque e sempre più persone che conoscevamo venivano arrestate e sbattute in prigione. Questo accadeva anche a persone che avevano i documenti. Molti sono scomparsi dopo essere stati deportati nel deserto.
Nell’inverno del 2024 siamo partiti per Sfax per cercare di fuggire, dinanzi al numero crescente di arresti. Quando siamo arrivati, abbiamo trovato un piccolo posto in affitto. Purtroppo, dopo poche settimane, il nostro padrone di casa ha subito pressioni dalla Guardia Nazionale per sfrattarci e abbiamo dovuto andarcene. Siamo quindi andati a vivere fuori Sfax, negli uliveti. I campi venivano regolarmente distrutti dalle forze dell’ordine, e avevamo dovuto spostarci.
Le condizioni di vita nei campi sono molto precarie: Le persone vivono in rifugi fatti di rifiuti di plastica e legno. Li dentro fa molto freddo, ma almeno offrono un po’ di protezione. Non c’è accesso all’acqua corrente. A volte gli abitanti del posto vengono a venderci lattine. Ci sono anche agricoltori che ci aiutano e quando vengono ad annaffiare i campi ci lasciano usare i loro serbatoi. Ma quell’acqua non è potabile e dobbiamo comunque comprare bottiglie extra. Mio marito aveva trovato un piccolo lavoro notturno che gli permetteva di guadagnare un po’ di soldi. Questo ci permetteva di comprare da mangiare.
Le condizioni erano così difficili e gli arresti così frequenti che avevamo deciso di fuggire dalla Tunisia, soprattutto perché avevo appena avuto un bambino con mio marito: il piccolo Elian Michel. All’inizio di febbraio 2025, siamo partiti su una barca di metallo verso l’Europa. La barca era molto affollata e instabile (eravamo in 47), ma procedeva bene. Al mattino presto, dopo alcune ore di navigazione, quando eravamo in acque internazionali, la Guardia Nazionale ci ha individuati. Ci avevano chiesto di spegnere il motore, minacciando di affondare la barca se avessimo rifiutato. Avevamo obbedito immediatamente perché avevamo troppa paura che potessero provocare onde che ci avrebbero fatto capovolgere.
Eravamo stati avvistati inizialmente da guardie costiere su moto d’acqua, che poi avevano chiamato due grandi imbarcazioni della Guardia Nazionale, giunte poco dopo. Ci avevano diviso in due gruppi, uno su ogni imbarcazione, prima di farci sbarcare nel porto di Sfax. Eravamo tutti bagnati e tremanti dal freddo, ma non ci avevano dato né coperte, né acqua, né cibo. Dato che avevo lasciato il latte del bambino sulla barca, avevo chiesto all’ufficiale della Guardia Nazionale di poterlo andare comprare in farmacia. Lui aveva risposto che non era permesso. Eppure vedeva che il mio bambino era molto piccolo, che aveva solo due mesi e mezzo ed era tutto bagnato… non mi aveva ascoltato nonostante le mie suppliche. Eravamo rimasti rinchiusi nel porto, per terra, tutto il giorno. Due donne incinte erano svenute ed erano state portate in ospedale. Ma nessuno aveva fatto nulla per il mio bambino.
Alla fine della giornata sono arrivati altri poliziotti. Ci hanno ammanettato tutti. Avevo le mani legate dietro la schiena e il mio bambino era sul petto, non potevo più toccarlo. Ci hanno fatto salire su un autobus. Altre persone si erano unite a noi sull’autobus: erano altri neri che la guardia nazionale aveva arrestato e messo in prigione. Restammo ammanettati sull’autobus per 5 ore. C’era un autista e altri 4 poliziotti che avevano il compito di perquisirci durante il viaggio. Chi protestava veniva picchiato. Non ci avevano ancora dato nulla da mangiare o da bere. Altri veicoli della Guardia Nazionale seguivano l’autobus.
Quando l’autobus si è fermato era buio. I poliziotti ci hanno fatto scendere uno alla volta. C’erano quattro auto con circa quindici poliziotti armati fino ai denti. Ci hanno tolto le manette, ci hanno fatto camminare per un chilometro prima di dirci di andare avanti senza voltarci. Grazie a qualcuno che era riuscito a tenere il cellulare, abbiamo capito che eravamo al confine con l’Algeria. Ci siamo divisi in due gruppi: alcuni volevano rifugiarsi in Algeria, ma io e mio marito volevamo avvicinarci il più possibile a una città per comprare del cibo per il nostro bambino, quindi ci siamo uniti al gruppo che voleva tornare in Tunisia.
Così abbiamo camminato tutta la notte con altre quindici persone circa. Un fratello mi ha dato dell’acqua per il mio bambino, ma mi sono accorta che era molto debole. Nel cuore della notte, il nostro gruppo è stato individuato dalla Guardia Nazionale. Tutti sono stati catturati, picchiati e probabilmente deportati di nuovo, tranne noi tre che siamo riusciti a nasconderci. Al mattino presto siamo arrivati in una piantagione di datteri vicino a un villaggio. Lì c’era un anziano che ha deciso di aiutarci quando ci ha visti. Ha chiamato qualcuno che è andato a comprare del latte, un biberon e del cibo per noi. Abbiamo mangiato, riposato e alla fine della giornata abbiamo deciso di ripartire. Volevamo camminare di notte perché sapevamo che durante il giorno c’era troppo rischio di essere individuati: se qualcuno ti vede, spesso chiama direttamente la polizia…
Dopo aver camminato per due giorni, siamo arrivati in una città un po’ più grande, ma qualcuno deve averci denunciato perché è arrivata la polizia e ci ha arrestati. Siamo stati nuovamente trasportati in auto per molte ore. Ci siamo resi conto che la guardia nazionale ci stava portando in Libia. Era buio quando ci hanno fatto scendere dall’auto. I libici ci aspettavano a pochi metri di distanza. Altre persone venivano deportate insieme a noi. Per fortuna siamo riusciti a nasconderci in una specie di grande tubo che si trovava lì vicino. I libici ci hanno cercato per un po’, ma grazie a Dio non ci hanno trovato.
Ancora una volta abbiamo camminato tutta la notte, sperando di trovare un villaggio sul lato tunisino. Abbiamo incontrato un uomo che ha deciso di aiutarci. Ha chiamato suo figlio, che ci ha portato a una stazione per poter tornare a Sfax. Ma ancora una volta la polizia ci ha fermato. Questa volta siamo stati deportati al confine algerino, sulle colline vicino a Tebessa. Dopo una settimana di vagabondaggio sulle colline, siamo riusciti a convincere un abitante del luogo a riportarci a Sfax in cambio di una somma di denaro. E così, dopo un mese nel deserto, siamo tornati agli uliveti. Abbiamo scoperto che il nostro rifugio era stato distrutto, quindi siamo andati ad accamparci un po’ più lontano.
Dato che il mio bambino non stava bene, sono andata da una sorella africana che era infermiera nel mio paese. Ha visitato mio figlio e mi ha detto che probabilmente aveva l’ipotermia. Purtroppo non abbiamo avuto il tempo di fare nulla. Quella notte l’ho messo a letto, ben coperto. Non si è più svegliato. Mio marito ed io abbiamo pianto molto, eravamo sotto shock. Uno dei leader della comunità del campo è venuto a trovarci e ci ha detto che avrebbe informato la Guardia Nazionale della morte. La Guardia Nazionale è venuta a prendere mio marito e il corpo del bambino. Sono andati all’ospedale dove un medico ha dichiarato il decesso. La polizia ha riportato mio marito al campo: lui voleva tenere il corpo con sé, ma glielo hanno impedito e gli hanno detto di lasciarlo nel furgone.
Non so se il mio bambino è stato sepolto e cosa sia successo al corpo. Come madre in lutto, è importante per me sapere dove si trova il corpo e poterlo salutare. È una situazione molto difficile. Oltre a questa perdita, c’è la situazione molto complicata in cui ci troviamo in Tunisia, a causa del razzismo e dei continui arresti e deportazioni. Non possiamo restare in Tunisia. Non abbiamo altra scelta che cercare di fuggire di nuovo da questo Paese”.
Queste sono solo due testimonianze che descrivono la situazione disumana dei migranti in Tunisia, Libia e Algeria, dove le loro vite non contano nulla e vengono abbandonati.
Le testimonianze presentate in questo rapporto mettono a nudo le brutali conseguenze di un regime di deportazione transnazionale che svaluta sistematicamente le vite dei migranti neri. La catena di eventi – dalle intercettazioni in mare agli abbandoni nel deserto e alle espulsioni transfrontaliere – rivela una politica deliberata di deterrenza attraverso la sofferenza. La Tunisia, con il sostegno tacito e palese degli attori europei, sta attuando pratiche che espongono i migranti non solo a ripetute violazioni dei loro diritti fondamentali, ma anche al rischio imminente di morte.
Queste storie non sono isolate. Riflettono un modello: persone sopravvissute a naufragio, deportate nel deserto; famiglie che subiscono perdite devastanti dopo ripetuti sgomberi forzati; individui che scompaiono oltre confine, detenuti a tempo indeterminato o che svaniscono senza lasciare traccia.
Questo sistema di controllo esternalizzato delle frontiere non si ferma ai confini fisici: si estende alle vite delle persone, lacerando famiglie, cancellando futuri e aggravando la violenza del controllo razziale delle migrazioni. Il regime di frontiera ha trovato un altro modo di strumentalizzare questo ambiente letale, condannando le persone a morire in mare o nelle regioni desertiche. Queste tragiche conseguenze non sono accidentali. Sono il risultato prevedibile ed evitabile delle politiche gestite dall’UE, elaborate per rafforzare le frontiere, indipendentemente dai costi in termini di vite umane.
Con Alarm Phone, piangiamo queste morti e facciamo eco alla richiesta di coloro che resistono a queste ingiustizie: le uccisioni alle frontiere devono cessare, libertà di movimento per tutte e tutti!